Intervento di Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, al Convegno di presentazione del n. 3/2019 della rivista Economia Italiana
Gender gaps in the Italian economy and the role of public policy
La Banca d’Italia è lieta di ospitare la presentazione del numero della rivista Economia Italiana dal titolo “Gender gaps in the Italian economy and the role of public policy”. La parità di genere, intesa innanzitutto come parità di opportunità, è un elemento essenziale per favorire l’equità, lo sviluppo sociale e la crescita economica; per questi motivi vi riserviamo un’attenzione costante.
Negli ultimi venti anni numerosi studi, inclusi quelli prodotti in Banca d’Italia, hanno messo in luce i molteplici benefici che derivano da una maggiore presenza e una più piena valorizzazione del contributo delle donne nell’economia e nella società. Il raggiungimento della parità di genere nel mercato del lavoro è, tuttavia, ancora lontano. In Italia il tasso di partecipazione femminile registrato nel 2018, pari al 56 per cento, è il più basso tra i 28 paesi dell’Unione europea. Il divario rispetto alla partecipazione maschile, storicamente elevato, resta ampio anche nelle coorti più giovani: è pari a circa 17 punti percentuali nella fascia di età 25-34 anni, solo due punti in meno del differenziale osservato per il totale della popolazione in età lavorativa. Le donne, inoltre, guadagnano significativamente meno degli uomini e hanno maggiori difficoltà a raggiungere posizioni apicali sia nel settore privato sia in quello pubblico.
La ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha importanti implicazioni per la crescita economica. Vi è consenso nel ritenere che, se la partecipazione femminile raggiungesse i livelli di quella maschile in ogni paese, ne conseguirebbe una notevole espansione del prodotto globale. Stime recenti suggeriscono che la rimozione delle barriere all’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro per le donne spieghi, negli Stati Uniti, oltre un terzo della crescita del reddito pro capite registrata tra il 1960 e il 2010.
Per l’Italia la crescita potenziale prevista per i prossimi anni dipende fortemente dalle ipotesi circa la partecipazione femminile, che ne risulta essere un motore fondamentale.
Essa rileva in termini quantitativi, poiché vi sono oltre 8 milioni di donne attualmente inattive, ma è importante anche in termini qualitativi. Le donne, infatti, hanno livelli d’istruzione elevati e posseggono competenze e abilità, quali quelle riguardanti le relazioni interpersonali e la comunicazione, che nel mondo del lavoro di oggi sono considerate cruciali. Non avvantaggiarsene rappresenta per la nostra economia una grave inefficienza; nei prossimi anni, infatti, i settori meno caratterizzati da lavori ad alta intensità fisica rappresenteranno una quota sempre più alta dell’attività produttiva.
La rilevanza dello scarso utilizzo dei “talenti” femminili in Italia si comprende esaminando soprattutto i dati relativi al livello di istruzione che, per le nuove generazioni, vede le donne ormai in vantaggio rispetto agli uomini. Nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 44 anni il 30 per cento delle donne possiede un titolo di istruzione terziaria, a fronte del 20 per cento per gli uomini. Questo divario riflette la forte crescita della quota femminile tra i nuovi laureati: pari a meno della metà nel 1990, ha raggiunto quasi il 60 per cento negli anni più recenti.
Il percorso scolastico e accademico delle giovani donne è inoltre caratterizzato da esiti spesso migliori rispetto a quelli dei loro coetanei. Secondo diverse rilevazioni (quali PISA e INVALSI), bambine e ragazze adolescenti ottengono nella comprensione dei testi – un fattore chiave in tutti gli ambiti disciplinari – punteggi mediamente più elevati dei loro compagni. Anche il ritardo nei percorsi scolastici è un fenomeno sempre più maschile: l’indagine di AlmaDiploma relativa al 2018 rivela che, in ogni tipologia di scuola superiore, le donne ottengono un voto di diploma più alto e hanno percorsi scolastici più regolari. Risultati analoghi emergono dall’indagine di AlmaLaurea sui laureati del 2018: nella maggior parte degli indirizzi di studio, il percorso formativo delle donne si conclude con votazioni in media più elevate e in tempi più contenuti.
Permane un divario da colmare in termini di competenze matematiche: secondo l’indagine PISA relativa al 2018 sui quindicenni dei paesi dell’OCSE, per l’Italia il differenziale tra maschi e femmine risultava ancora tra i più alti. La quota di ragazze tra i laureati nelle discipline scientifiche (nel raggruppamento noto con l’acronimo STEM, “Science, Technology, Engineering, Mathematics”), seppure inferiore al 50 per cento, non è però inferiore in Italia a quella media dei 28 paesi dell’Unione europea.
Il raffronto tra i dati complessivamente positivi nel campo dell’istruzione e quelli deludenti che provengono dal mercato del lavoro desta preoccupazione. Esso segnala che, una volta concluso il percorso di studio, le donne non riescono a mettere a frutto le competenze acquisite. Le ragioni di questo fenomeno e le possibili misure da attuare per contrastarlo meritano di essere studiate con attenzione, come avviene in questo numero speciale di Economia Italiana.
Si discute spesso dell’importanza di politiche volte ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita familiare e lavorativa. In Italia, infatti, le donne sono le principali fornitrici dei servizi di cura e come tali sono ancora percepite. Secondo l’indagine dell’Eurobarometro su Gender Equality condotta nel 2017, nel nostro paese il 51 per cento degli intervistati ritiene che il ruolo più importante della donna sia quello di accudire la famiglia e i figli; in Svezia questa quota è pari ad appena l’11 per cento. Non sorprende, quindi, che, rispetto alle donne degli altri paesi europei, le italiane siano molto più impegnate in famiglia nelle attività di cura piuttosto che nell’occupazione sul mercato del lavoro; vale esattamente il contrario per gli uomini italiani, che risultano più assenti da casa e più presenti sul posto di lavoro.
L’attuale sistema di welfare italiano tende ancora, quindi, a riflettere e ad alimentare lo squilibrio tra i generi nella ripartizione delle responsabilità familiari. Il sostegno alle famiglie, soprattutto nell’alleviare il peso dei carichi di cura attraverso l’offerta di servizi, resta poco generoso, nonostante i miglioramenti apportati negli ultimi anni. I dati Istat sottolineano che meno di un bambino su quattro ha la possibilità di frequentare un asilo nido pubblico; in presenza di forti carenze, quantitative e qualitative, di servizi pubblici e privati, andrà valutato quanto i sussidi monetari per il pagamento delle rette saranno in grado di incentivarne l’utilizzo.
Al fattore economico-finanziario che discende dalle difficoltà e dai costi che le donne devono affrontare nella partecipazione al mercato del lavoro si somma il fattore di natura culturale consistente nell’asimmetria nella ripartizione dei compiti di cura, e nel conseguente peso del lavoro domestico, cui ho prima fatto cenno. Entrambi i fattori contribuiscono probabilmente a spiegare il basso livello del tasso di fecondità dell’Italia, pari a 1,29 figli per donna nel 2018 e, con quelli di Malta e Spagna, il più basso tra i paesi dell’Unione europea. Dopo aver raggiunto un minimo inferiore a 1,20 alla metà degli anni Novanta, il tasso di fecondità era risalito fino all’1,46 del 2010; da allora ha ripreso a calare, con un andamento che non riguarda più ora le sole donne italiane, ma anche le straniere residenti nel nostro paese. Promuovere un circolo virtuoso tra occupazione femminile e fecondità è un obiettivo sempre più urgente.
Alla luce di queste considerazioni, la scelta del tema del convegno della rivista Economia Italiana risulta particolarmente opportuna e attuale. Desidero quindi ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa importante iniziativa, augurando buon lavoro a tutti i partecipanti.